Presentato il Rapporto Oasi 2014 di Cergas e SDA Bocconi. La spesa pubblica in sanità diminuisce per la prima volta dal 1995 e il deficit è azzerato, ma ora comincia la parte più difficile: riorganizzare i servizi allineandoli all’epidemiologia emergente. Seimila cittadini e 1.600 addetti ai lavori hanno risposto alla survey di Bocconi e Bayer sul futuro del Ssn. E le visioni convergono in modo sorprendente.
Nel 2013 la spesa pubblica in sanità è diminuita, per la prima volta in quasi 20 anni, sia in termini assoluti (i 112,6 miliardi spesi rappresentano una riduzione dell’1,2% rispetto al 2012), sia in rapporto al Pil (passando dal 7,3% al 7,2%). Il disavanzo si è ridotto a circa l’1% della spesa corrente e anzi, se si contabilizzano le addizionali Irpef incassate nell’anno successivo a ripiano del deficit dell’anno precedente, si può addirittura contabilizzare un avanzo di 518 milioni nel 2012 e di 811 milioni nel 2013.
Nell’evidenziare questi dati, il Rapporto Oasi 2014 di Cergas e SDA Bocconi con la collaborazione di Bayer, presentato oggi a Milano, evidenzia però la strada che rimane da fare.
“Le aziende sanitarie”, hanno affermato i curatori del Rapporto, Elena Cantù e Francesco Longo, “hanno compiuto un piccolo miracolo: pareggio di bilancio e assenza di incremento di spesa da 5 anni con una sostanziale tenuta del sistema nonostante invecchiamento della popolazione, peggioramento epidemiologico, nuove tecnologie e incremento della povertà. Il sistema è ora pienamente sostenibile. Dalla fase di rapido contenimento della spesa prevalentemente con logiche input based”, hanno proseguito, “dobbiamo ora riorganizzare i servizi allineandoli all’epidemiologia emergente: è un lavoro di medio periodo, ora possibile, solo perché abbiamo messo a posto i conti. Questa è la sfida che attende il Ssn e le aziende sanitarie devono giocare un ruolo centrale”.
Il processo di miglioramento dei conti non è, però, senza costi. Il Sistema sanitario nazionale ha visto ridursi le spese per il personale di circa l’1,5% l’anno negli ultimi tre anni a causa della mancata sostituzione di chi va in pensione, del blocco degli stipendi e dell’esternalizzazione di molte attività alle cooperative sociali. Nelle regioni tirreniche soggette a Piano di rientro (Lazio, Campania, Calabria e Sicilia), il personale a tempo indeterminato si è ridotto del 15% dal 2006 al 2012 e quello a tempo determinato o interinale del 27%. La dinamica della spesa farmaceutica convenzionata è stata, se possibile, ancora più marcata: essa è diminuita del 7,6% l’anno negli ultimi tre anni.
Il contenimento della spesa è avvenuto anche attraverso forme di razionamento quali le liste di attesa o i tetti sui volumi di prestazioni erogabili dai privati accreditati. A motivo di tali vincoli, i privati accreditati si trovano a utilizzare, in media, poco più del 70% della propria capacità produttiva, con evidenti minacce al loro equilibrio economico. Più in generale, a risentire dei tagli è tutto il settore sanitario privato, che in Italia impiega più di 110.000 persone e nel quale il Sistema sanitario nazionale riversa più del 60% dei propri finanziamenti.
Gli italiani hanno cominciato a trattare la propria salute come un bene di lusso. Le spese nei beni di lusso sono le prime a essere tagliate quando si riduce il potere d’acquisto e la spesa in sanità ha seguito questa stessa parabola negli ultimi anni. La minore spesa pubblica non è, infatti, sostituita da maggiore spesa privata, che è anzi diminuita dell’1,5% nel 2012 e del 5,3% nel 2013, nonostante il forte aumento dei ticket. Se l’ammontare complessivo dei ticket è rimasto più o meno stabile fino al 2007, da allora al 2013 è praticamente raddoppiato, passando da 1,6 a 3 miliardi di euro, con la forte discontinuità dovuta all’introduzione, nel 2011, del cosiddetto superticket sulla specialistica. La maggiore spesa per i ticket è stata, però, più che controbilanciata dalla diminuzione delle altre spese private. Inoltre, all’indomani dell’introduzione del superticket, la domanda di prestazioni da parte dei cittadini si è ridotta.
Nel clima economico corrente, evidenzia infine il Rapporto, si è notevolmente ridotta la capacità di investimento del Sistema sanitario nazionale, che oggi è pari al 5% della spesa sanitaria corrente. Se, ad oggi, l’Ocse valuta positivamente lo stock tecnologico della sanità italiana, è chiaro che il dato suggerisce incerte prospettive per il futuro.
“I risultati di questo studio di Cergas Bocconi ci consentono uno sguardo sugli scenari futuri del nostro sistema sanitario. Ci aiutano ad interpretare il cambiamento in atto anche grazie agli investimenti in innovazione che portano nel tempo allo sviluppo di nuove terapie, da utilizzare secondo principi di appropriatezza”, ha dichiarato Giovanni Fenu, responsabile dellaDivisione Farmaceutica Bayer Italia. “In linea con la nostra mission, vogliamo contribuire allo sviluppo di un sistema salute che sia sostenibile e che consenta l’accesso ad un’assistenza sanitaria sempre migliore per i cittadini. Lo stesso dovrebbe garantire ai pazienti la possibilità di fruire delle nuove possibilità di cura indipendentemente dal contesto geografico – regionale. Obiettivi, questi, oggi più vicini, anche grazie alla crescita indispensabile del dialogo tra operatori del settore sanitario e cittadini. Entrambe le voci vanno sempre interpretate come fondamentale occasione di ascolto e riflessione per chi è deputato a trovare miglioramenti e soluzioni sostenibili.”
Vota il tuo scenario sul futuro della sanità italiana
Chiamati a riflettere sulla sanità pubblica di domani, cittadini ed esperti si armano di realismo e disegnano scenari più simili tra loro di quanto ci si potrebbe attendere, a giudicare dai risultati della survey Vota il tuo scenario sul futuro della sanità italiana, promossa da Cergas e SDA Bocconi, BAA Bocconi Alumni Association in collaborazione con Bayer Italia, e al quale hanno risposto nelle scorse settimane quasi 6.000 cittadini e 1.600 professionisti della sanità.
Contrariamente a quanto suggerito dalle cronache delle proteste che sempre si verificano in occasione della chiusura di piccoli ospedali locali, il 52% del pubblico preferisce un ridotto numero di ospedali di grandi dimensioni, dove concentrare tecnologie e competenze e solo il 27% appoggia il decentramento territoriale. D’altra parte, se si può dare per scontata la preferenza dei cittadini per il contenimento delle retribuzioni dei manager della sanità, sono gli stessi addetti ai lavori a giudicare piuttosto improbabili aumenti futuri (danno a questo scenario una probabilità media pari a 3,5 su una scala da 1 a 7).
Anche in fatto di liste d’attesa cittadini ed esperti concordano: in tempi di contrazione di risorse è preferibile limitare il perimetro delle prestazioni garantite dal Sistema sanitario nazionale, ma garantendole davvero – azzerando cioè le liste d’attesa che oggi caratterizzano troppi servizi (61% dei cittadini) anziché mantenere la situazione attuale (13%). A questo scenario gli esperti danno una probabilità di 5,2/7.
Non mancano, comunque, le divergenze tra pubblico e addetti ai lavori. Se costretti a scegliere (ma una quota consistente di loro –il 34%- non vuole rispondere) i cittadini preferiscono che un incremento di servizi sia finanziato da un innalzamento dei ticket (22%) piuttosto che da un maggiore ricorso a forme di finanziamento privato (assicurazioni o esborsi diretti da parte delle famiglie – 15%). Gli addetti ai lavori considerano, invece, più probabile un crescente ricorso alle assicurazioni private (4,4/7).
Divide, infine, gli stessi cittadini, la questione del decentramento del sistema sanitario. A fronte dei deficit finanziari accumulati da troppe regioni, una strettissima maggioranza (45% contro 44%) preferirebbe un maggiore accentramento a un maggiore decentramento. La maggioranza di chi vive al Nord è, però, favorevole al decentramento e la maggioranza di chi vive al Sud è per l’accentramento. Gli esperti prevedono interventi sempre più incisivi (fino a ridurre di fatto l’autonomia) da parte dello stato centrale in caso di disavanzo regionale. Ritengono, inoltre, che i disavanzi regionali saranno sempre più spesso appianati attraverso la fiscalità regionale, senza contributi di solidarietà nazionali.
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