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sabato 11 aprile 2009

MARTE IN PESCI


MARTE IN PESCI



Marte in Pesci e la spettacolarizzazione della sofferenza



Quando Marte entra, come in questo periodo di primavera 2009 , nel segno dominato da Giove, i Pesci (Giove rappresenta il visibile concreto, quindi la vista) assisistiamo alla spettacolarizzazione della sofferenza. Il pubblico è curioso vuole essere continuamente presente alla sofferenza altrui. La sofferenza attrae perchè è esperienza universale verso la quale si può avere curiosità oppure sincero interesse. La sofferenza altrui è un urlo che dobbiamo ascoltare. Ma per la sofferenza collettiva la storia è ben diversa. E' anche vero che in tanti approfittano in una forma di sciaccallaggio della sofferenza altrui, usandola per creare spettacolo. La differenza è sempre tra curare e guarire o meglio ancora "prevenire " la sofferenza; essa costituisce il caso serio dell' esistenza, tutto ciò che è superficiale e divertente si oppone alla profondità del dolore che è sempre legato si al fisico, ma anche alle verità profonde. L'immagine del dolore è qualcosa che nella società dell'informazione diviene merce all'ingrosso: i telegiornali e la carta stampata ne riempiono la nostra giornata. Le giustificazioni solitamente sono due: il diritto ad informare e il supposto valore deterrente di queste immagini. L'implicito è che se veniamo informati dell'enormità del dolore che l'uomo può causare, dovremmo desistere dal causarne a nostra volta. Ma di fatto quel che si genera è qualcosa di diverso. Guardando le sofferenze degli altri, mentre ne proviamo compassione. otteniamo allo stesso tempo di allontarle da noi, in una sorta di rituale scaramantico, perché tutto sommato quel che vediamo non sta accadendo a noi. Si tratta di un dispositivo proprio sia della catarsi aristotelica che della teorizzazione del '700 sul sublime: «lo spettatore gode non della sublimità degli oggetti che la sua teoria gli dischiude, - come osserva Blumemberg - ma della consapevolezza di sé di fornte al turbine di atomi di cui consiste tutto ciò che egli osserva - perfino lui stesso». Compassione senza impegno, compassione come strumento di allontanamento, compassione come sedativo dell'emozione.

La storia insegna che una civiltà che trova godimento, anche se nascosto nell’ipocrisia, nel dolore altrui è una civiltà destinata alla barbarie, alla follia e ad una spaventosa sofferenza.

Questo è diventato uno strumento di potere non lontano dal circo romano, dalle streghe al rogo della santa inquisizione, o dai sacrifici umani degli Aztechi..

Quale ragionamento potrà esorcizzare questa follia? Solo la bellezza e l’amore potrà salvarci, e la sofferenza non è bella, anzi è brutta, bruttissima. Bisogna solo accettarla in noi come naturale esperienza umana senza focalizzarsi, senza fissarsi, senza esaltarla inutilmente, dandole il giusto significato in senso karmico come necessario passaggio ad un livello superiore di consapevolezza... passaggio transitorio e riequilibrabile ad ogni istante nel nostro umile viaggio dalla nascita alla morte, dalla morte alla rinascita, dall’esilio al ritorno a casa del Padrone..





“Mentre questo dicevano tra loro, un cane

che stava lì disteso, alzò il capo e le orecchie.

Era Argo, il cane di Odisseo, che un tempo

egli stesso allevò e mai poté godere nelle cacce,

perché assai presto partì l’eroe per la sacra Ilio.

Già contro i cervi e le lepri e le capre selvatiche

lo spingevano i giovani; ma ora, lontano dal padrone,

stava abbandonato sul letame di buoi e muli

raccolto presso le porte della reggia

fin quando i servi non lo portavano sui campi

a fecondare il vasto podere di Odisseo.

Là Argo giaceva coperto di zecche.

E quando Odisseo gli fu vicino, ecco agitò la coda

e lasciò ricadere le orecchie; ma non poteva

accostarsi al suo padrone. Odisseo

volse altrove lo sguardo e s’asciugò una lacrima

senza farsi vedere da Eumèo; e poi così diceva:

«Certo è strano, Eumèo, che un cane come questo

si lasci abbandonato sul letame. Bello è di forme;

non so se un giorno, oltre che bello, era anche veloce

nella corsa, o non era che un cane da convito,

di quelli che i padroni allevano solo per il fasto».

E a lui così rispondeva Eumèo, guardiano di porci:

«Questo è il cane d’un uomo che morì lontano.

Se ora fosse di forme e di bravura

come, partendo per Troia, lo lasciò Odisseo,

lo vedresti con meraviglia veloce e forte.

Mai una fiera gli sfuggiva nel folto della selva

quando la cacciava, seguendone abile le orme.

Ma ora, infelice, patisce. Lontano dalla patria

è morto il suo Odisseo; e le ancelle, indolenti,

non si curano di lui. Di malavoglia lavorano i servi

senza il comando dei padroni, poi che Zeus,

che vede ogni cosa, leva ad un uomo metà del suo valore,

se il giorno della schiavitù lo coglie».

Così disse, ed entrò nella reggia incontro ai proci.

E Argo, che aveva visto Odisseo dopo vent’anni,

fu preso dal Fato della nera morte.”

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