"Mi spiace molto, ferisce il cuore vedere questa parte di stadio vuota.
Per le grandi risalite servono anche i tifosi, una curva che ruggisce e che canti 'Grazie Roma'.
E' una spinta importantissima, mi hanno sempre mandato messaggi d'affetto in questi anni e ora devono sostenermi. Per me col Verona la Sud sarà piena".
Così oggi Luciano Spalletti nella conferenza stampa prepartita di domani rispondendo a chi gli domandava in merito alla probabile mancanza della curva Sud allo stadio Olimpico domani per Roma-Verona.
Non succederà, ma a nostro avviso, sarebbe una dimostrazione
di forza, oltre che di amore per la Maggica, se la Sud domani tornasse, almeno
per una domenica, a dare prova e sfoggio del tifo e sostegno che solo lei sa esprimere.
Comunque la si voglia vedere, questo modo di protestare
contro un iniquo accanimento istituzionale – è bene sottolinearlo - è ormai
un'impuntatura d'orgoglio che non ha ottenuto né otterrà nulla dal Prefetto
Gabrielli.
Gli unici risultati sono una cesura e un’incomprensione sempre
più grande tra gli stessi tifosi
romanisti e a tutto danno della squadra che, ora più che mai, sembra aver
bisogno soprattutto di un colpo di frusta mentale per riprendersi in campionato.
Gli ultras lamentano che gli venga richiesto di uniformarsi
alla compostezza propria degli spettatori di uno spettacolo teatrale, ma in
realtà l'obiettivo delle istituzioni è di isolare chi vive nel sottobosco del
tifo calcistico come mezzo per sfogare comportamenti border line odiosi e violenti.
Le barriere, ma anche altri ostracismi come gli assurdi Daspo
per chi cambia posto, si potranno eliminare se la curva giallorossa riuscirà a
dimostrare maturità, attraverso la migliore espressione del tifo innamorato,
gioioso e pacifico, e non per questo meno chiassoso ed entusiasta.
Il tifo come amore per i propri colori, i simboli di Roma e
del romanismo.
Il tifo come continuo incitamento, esaltazione, sfottò
goliardici e allegri. A favore, non contro.
Anche perché “gli altri”, i tifosi delle squadre avversarie,
non sono nemici da combattere in uno scontro di civiltà, ma semplici rivali da
sfottere con goliardica allegria in una competizione sportiva e culturale.
Da sfottere, sottolineiamo,
non odiare. Come si fa ancora ad accettare il semplice parlare di “odio
calcistico” in un mondo sempre più flagellato dagli orrori di guerre e
terrorismo?
Le parole hanno il loro peso. Anche nei cori e striscioni da
stadio.
Il sogno di chi scrive è che un giorno si possa andare allo
stadio senza alcun timore di indossare la sciarpa sbagliata nel momento o posto
sbagliato, anche vicino al tifoso avversario. Senza bisogno di un impegno delle forze d’ordine
oltre il normale servizio per manifestazioni pubbliche come i concerti.
Perché andare a guardare la partita è uno spettacolo, una
festa, non una battaglia.
ap
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