Il clima da far west che sta caratterizzando il già incandescente dibattito sula giustizia, rischia di mietete numerose vittime eccellenti. A partire dai provvedimenti in discussione nella commissione giustizia di Palazzo Madama dove è in atto una vera e propria corsa contro il tempo. C’è la riforma del processo penale, quella sulle intercettazioni, l’attuazione delle deleghe sulla legge 69/09 che ha riscritto il processo civile e, non da ultimo la riforma dell’Avvocatura. Riforme “specifiche” è vero, che però non mancano di avere linee di fondo comuni. La riforma della professione forense si trova proprio nel mezzo. Agli avvocati si vogliono dare più poteri per bilanciare quelli del Pm nell’ambito del progetto di parità tra le parti del processo; sono i diretti interessati dalla riforma del processo penale così come in quella del processo civile. Se è vero che la “ricetta” per smaltire i 5 milioni di cause civili arretrate è quella della conciliazione che, nel disegno di legge “obbliga” il legale a informare i propri clienti delle possibilità di conciliazione e dei benefici connessi (in termini di tempo e denaro risparmiato). Da un lato abbiamo quindi un obiettivo non troppo velato (visto che è stato proprio il Guardasigilli a lanciarlo): cioè quello di un rafforzamento della figura del legale come protagonista del processo. Dall’altro abbiamo la realtà di una professione alle prese con un radicale make up per sopravvivere alla crisi, non solo economica, ma di “sistema”. Ecco perché si spiega il pressing sul Governo dei legali, ben riassunti nel “Decalogo” unitario approvato la scorsa settimana con i punti “irrinunciabili” della categoria. L’acceso indiscriminato alla professione che si ripete ad ogni esame di Stato non solo complica i giochi dei già 220 mila iscritti presso il Foro, ma rischia di portare al gioco del ribasso. Perché l’accaparramento della clientela non fa rima con qualità del servizio offerto, soprattutto quando ci sono di mezzo diritti inviolabili come quello della difesa, della libertà personale etc…..E’ unitile gridare al lupo al lupo se poi si deve affidare la tutela dei propri diritti al miglior offerente. Le “scremature” a monte dell’esame di abilitazione (nella sessione 2007 si sono presentati in più di 40mila aspiranti, ma solo in 9.905 hanno portato a casa il titolo) può arginare fino a un certo punto l’eccesso di zelo nel prendere in carico una causa piuttosto che un’altra.
Per questo il “decalogo” punta a una maggiore deontologia a una maggiore formazione professionale, a tariffe legali certe che non diano spazio alla contrattazione . E’ per questo che tra i punti qualificanti del testo di riforma forense approvato a luglio dal comitato ristretto, c’è la richiesta di un accesso programmato, più selettivo (con la prova informatica da aggiungere) e, soprattutto, la regola del “o sei dentro o sei fuori”. Nel senso di esercitare effettivamente e continuativamente la professione, pena la cancellazione dall’albo. Non bisogna stupirsi se il ministro della Giustizia, fosse anche “imboccato”, tra le riforme per far ripartire la “macchina”, citi ora come “indispensabile” una revisione della figura del legale. Già gli avvocati pagano lo scotto per esser stati esclusi dagli incentivi del piano anticrisi salvo che ricordarsi di loro quando è l’Antitrust a vederli come imprese su cui far valere il principio di concorrenza. Non si capisce ancora che liberalizzazione è un concetto che stona con garanzia della prestazione, che pubblicità non fa rima con rigore e qualificazione. Che maggiore disciplina mal si coniuga con il concetto di “risparmio” . E infine che essere socio di uno studio legale non deve significare per forza essere precario a vita, pur con tanto di titolo da affiggere in bacheca. La “mediazione” dell’avvocato ha un solo costo: quello del rispetto di un ruolo che fine a prova contraria, tra leggi e leggine, manda avanti l’intero malconcio carrozzone della giustizia.
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