L’opposizione ai tempi dei social media. Ecco la prima vera fotografia ad alta risoluzione di chi è contro in Italia. Le società Fleed digital consulting e Public Affairs Advisor hanno presentato il rapporto “#NO2.0 come il dissenso comunica sul web” che analizza la presenza in rete dei fenomeni di opposizione a infrastrutture, grandi reti e investimenti industriali eventi (No Expo, No Triv, No Tav, etc..). L’analisi è stata effettuata in un arco temporale di 5 mesi (settembre 2014-gennaio 2015) su 40 milioni di account social media, 100mila fonti web e 40 movimenti di opposizione.
ROMA. Chiamatelo “No 2.0” o, se preferite, opposizione ai tempi dei social media. Ecco la prima vera fotografia ad alta risoluzione di chi è contro in Italia. Poco importa poi se si tratta della Tav, l’Expo, le discariche, l’eolico, le trivellazioni in Adriatico, le grandi opere. L’analisi è stata condotta da Public Affairs Advisors e da Fleed Digital consulting ed è una lente di ingrandimento su quel che è accaduto nel Web nel corso degli ultimi sei mesi. Sono stati passati al setaccio oltre venticinquemila discussioni, novemila tweet, cinquemila post su Facebook.
Intendiamoci, l’indagine non entra nel merito della legittimità dei singoli movimenti, ma si limita a tracciarne un profilo evidenziando origine, affinità, modus operandi. Un panorama fatto daquattro milioni di account, quelli dei quali è possibile vedere pubblicamente i contenuti, e oltre centomila fra forum, blog e siti. Non è un campione rappresentativo su base demografica e statistica, ma indicativo di quanto successo su Internet.
«La prima cosa che emerge è il tramonto dell’idea del “not in my back yard” (nimby), ovvero del “mi riguarda solo se avviene nel cortile di casa”, spiega Alessandro Giovannini, direttore di Fleed. «Sono pochi coloro chi si oppongono perché chiamati in causa direttamente. Il no sul Web è spesso ideologico, trasversale e non più riconducibile a un solo movimento politico parlamentare o extra parlamentare».
In testa alla classifica c’è No Tav, nato nel 1993: ha generato un volume di discussioni tre volte superiore rispetto a quello che si oppone all’Expo dal 2007 e alle trivellazioni in Adriatico, No Triv, apparso nel 2012. Molte le differenze, ma altrettante le similitudini e abituale il sostegno reciproco malgrado luoghi e date di nascita differenti. Come i No Tav del Piemonte e i No Muos siciliani che si oppongono all’installazione dei radar della Nato dal 2009. Il No Triv invece, sorto fra Basilicata, Abruzzo e Irpinia, ovvero dove ci sono progetti di estrazione o esplorazione dei giacimenti petroliferi o di gas, è un movimento locale poi diventato nazionale collaborando con le associazioni ambientaliste per contrastare il decreto Sblocca Italia. La battaglia ha fatto fare ai No Triv anche un salto di qualità con l’alleanza con gli spagnoli che contrastano le trivellazioni a largo delle Canarie. Tanto che sui social media ora i post vengono scritti in doppia lingua, spagnolo e italiano.
I No Tav invece preferiscono la diffusione di video, grazie all’alleanza strutturale con Anonymous. Partono da YouTube e Vimeo e poi vengono amplificati via social network. Nato in Val di Susa, ora il movimento si occupa di grandi opere a trecentosessanta gradi. «La circolazione di informazioni è velocissima» racconta Giovanni Galgano, direttore di Public Affairs Advisors. «E in certi casi si tratta di notizie incomplete o false. Ma ciò nonostante, queste forme di dissenso dimostrano che le istituzioni perdono credibilità giorno dopo giorno. I cittadini si sentono da un lato abbandonati, dall’altro protagonisti». Con una novità importante: ormai il no nasce quasi esclusivamente online, lì si evolve e poi solo dopo arriva nelle piazze. Ed è il movimento “liquido”, quello sulla Rete, a diventare a volte punto di riferimento della politica e non il contrario. «Questo è un aspetto interessante», concorda Stefano Epifani, docente di comunicazione digitale a La Sapienza di Roma e autore fra gli altri del saggio Manuale di comunicazione politica online. «Se escludiamo i movimenti più grandi, ogni dissenso può esser costruito ad arte da multinazionali, gruppi di pressione, organizzazioni di vario tipo. È il “crowdlobbying” e consiste nell’utilizzare la Rete come strumento di persuasione dal basso. Ci sono aziende che, mentre continuano a fare comunicazione istituzionale, mettono in piedi pagine su Facebook di dissenso funzionali alla propria proposta». Chiunque si occupi di lobbying sta studiando questi fenomeni. «Ma attenzione: non è detto che sia fatto per fini ideologicamente spregevoli», conclude Epifani. «Greenpeace, faccio un esempio a caso, potrebbe usare simili leve per promuovere le sue battaglie. E del resto, cosa ci sarebbe di male?» Nulla, verrebbe da dire, almeno finché è tutto alla luce del sole.
FONTE: Repubblica
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