Monsignor Giovanni Carrù nel 2011 approfondisce il tema della parabola della croce, da patibolo a simbolo di resurrezione. Carrù riporta infatti che nell’antichità erano molte le denominazioni della croce ma alla fine è il cristogramma a divenire il segno inconfondibile dell’ anàstasis che decora i monumenti dei morti, dei vivi, dei neofiti, dei catecumeni, di tutto il popolo di Dio.
La parabola della croce da patibolo a simbolo di resurrezione -
Trasfigurazione di uno strumento di morte
di Giovanni Carrù
Trasfigurazione di uno strumento di morte
di Giovanni Carrù
Molte risultano nell’ antichità cristiana le denominazioni della croce che, sollevando la sua struttura iconografica dal semplice e inquietante strumento di morte, da identificare con il patibulum della passio Christi, assurge a simbolo dell’ anàstasis, in quanto signum Christi, che equivale al signum salutis, al trophaeum Christi, alla crux triumphalis.
Questo paradosso e queste oppositae qualitates provengono naturalmente dalla apparente dicotomia che si stabilisce tra l’ episodio storico e drammatico della crocefissione (accuratamente censurato dall’ arte cristiana più antica) e quello epocale dell’ anàstasis.
Tutto ciò trova una perfetta armonia con gli scritti del Nuovo Testamento, secondo i quali tutto l’ Antico Testamento tende al Cristo, prefigurandone il mistero realizzato nella pienezza dei tempi (Luca, 4, 16).
Ebbene, in questo contesto, la passione, la crocefissione e la resurrezione rappresentano i momenti culminanti del «compimento delle scritture» (Luca, 24, 25). Il paradosso e l’ apparente dicotomia, di cui si è detto, sembrano trovare ragione nel parallelismo paolino tra Adamo e Cristo: così come il peccato dell’ origine si consumò attorno a un albero (Genesi, 3), sul Calvario da un altro «albero» è venuta la salvezza per il mondo (Romani, 5, 13-14).
Ebbene, in questo contesto, la passione, la crocefissione e la resurrezione rappresentano i momenti culminanti del «compimento delle scritture» (Luca, 24, 25). Il paradosso e l’ apparente dicotomia, di cui si è detto, sembrano trovare ragione nel parallelismo paolino tra Adamo e Cristo: così come il peccato dell’ origine si consumò attorno a un albero (Genesi, 3), sul Calvario da un altro «albero» è venuta la salvezza per il mondo (Romani, 5, 13-14).
Se l’ arte cristiana tace sino al V secolo, quando la crocefissione appare in una formella della porta lignea di Santa Sabina e in alcune ampolle metalliche della Terra Santa, i padri della Chiesa si riferiscono alla croce già dall’ età subapostolica, trovando, alla metà del II secolo, negli scritti dell’ apologista Giustino, l’ approfondimento tipologico più ampio e compiuto (Dialogo con Trifone, 86).
È così che il segno e il significato della croce vengono ricondotti al bastone con cui Mosè divise il Mar Rosso e fece scaturire l’ acqua dalla roccia (Esodo, 14, 16; 17, 5-6); al bastone con cui Giacobbe attraversò il Giordano (Genesi, 32, 11); alla scala del sogno di Bethel (Genesi, 28, 10-22); al bastone di Aronne che diede germogli e fiorì (Numeri, 17, 23); al tronco di Iesse dal quale sarebbe spuntato il Messia (Isaia, 11, 1); al bastone che Eliseo gettò nel Giordano (2Re, 6, 6); al bastone di Giuda (Genesi, 38, 25).
Ireneo di Lione definisce il significato dell’ immagine della croce identificandolo con l’ albero della vita, tanto che tale accostamento giungerà a significare il superamento della disobbedienza a Dio mediante l’ obbedienza di Cristo (Esposizione della predicazione apostolica, 34).
Ed è proprio in questo densissimo scritto che Ireneo definisce la tipologia analogica e cosmica della croce, facendo riferimento al testo paolino di Efesini, 3, 17-19, il quale recita: «che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e siate così in grado di comprendere quale sia l’ ampiezza, l’ altezza e la profondità e di conoscere l’ amore di Cristo che supera ogni conoscenza». Il Verbo di Dio, dunque, è impresso in tutte le cose secondo le quattro dimensioni, proprio come il Crocefisso.
Ancora in chiave tipologica, Tertulliano ricorda come il segno soterico della croce, definita sacramentum, sia riconoscibile spesso negli episodi dell’ Antico Testamento (Contra Marcionem, 3, 18-22) di cui sono protagonisti Isacco, Giuseppe, Mosè, ma anche i profeti Isaia ed Ezechiele.
Dobbiamo leggere l’ Anticristo di Ippolito, per intercettare la tipologia della croce come segno di vittoria, con una consequenzialità che lega, come anelli di una catena, la croce, la Chiesa, la nave e l’ arca dell’ alleanza. In questa sequenza, la croce assurge a immagine-trofeo della vittoria di Cristo, che sfocia, in quanto vessillo di lotta, nei testi che rievocano il celebre prodigio costantiniano, ricordato da Eusebio nella Storia Ecclesiastica e nella Vita di Costantino e da Lattanzio nella Morte dei persecutori.
Ebbene, l’ incrocio di queste fonti si inserisce nella complessa questione del sogno dell’ imperatore della tolleranza, che sale al potere in occidente (312) e in oriente (324). Se l’ intento di Lattanzio (La morte dei persecutori, 44), quando riferisce che «in sogno [Costantino] fu avvertito di far incidere sugli scudi il celeste segno di Cristo», era quello di raccontare la fine violenta di Massenzio che, spinto dai fuggiaschi, precipitò con loro nel Tevere, per Eusebio (Vita di Costantino, 1, 28) il signum salutis appare, al contrario, come un presagio di vittoria, tanto che esso fu fatto rappresentare nel labaro in oro e in pietre preziose (ibidem, 1, 29).
Il cristogramma diviene, da quel momento, il segno inconfondibile dell’ anàstasis e decora i monumenti dei morti, dei vivi, dei neofiti, dei catecumeni, di tutto il popolo di Dio. Le iniziali greche del Cristo, indissolubilmente unite ed incrociate, appariranno come sigillo e cifra dei convertiti e come segno di una fede solida e invincibile. Per questo, da insegna suggestiva della battaglia epocale di Ponte Milvio, passa a rappresentare lo slogan della resurrezione, della salvezza, della luminosa «stella parlante» di un cielo luminoso per tutti i fedeli dell’ ecumene cristiana.
Fonte: Radio Vaticana
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