La morte di Stefano Cucchi in circostanze “sospette”, poi il suicidio di Diana Blefari in cella per l’omicidio di Marco Biagi e i pestaggi al carcere di Teramo (ieri il Guardasigilli Alfano ha riferito al Senato in merito), riaccendono i riflettori sulla vita di chi, privato della libertà per un reato commesso, è condannato a scontare la “pena” in carcere per mesi, anni o per tutta l’esistenza. Troppo facile animare il dibattito politico (o lo scontro?) su un tema così delicato come quello sulla funzione rieducativa dei nostri istituti di pena. “L’emergenza” non la si può ricavare solo nella freddezza dei numeri sul sovraffollamento: i detenuti sono 65.225 contro un limite di tollerabilità”di 63.568 posti e di questi 24.085 (circa il 37%) sono stranieri, mentre 31.346 (il 50% del totale) in attesa di giudizio. I numeri, ripetuti e aggiornati a iosa a ogni inaugurazione dell’anno giudiziario, si conoscono già. Non c’è alcun “carcere leggero” di nuova costruzione che tenga, nessun indulto o amnistia che possa venire in aiuto al principio della certezza della pena. Questo fin quando non si capisce che la vita in galera è fatta di tanti piccoli momenti, di tanti problemi minuscoli, tante frustrazioni che scavano e consumano chi sta dentro. E’ lo stress e la fatica di sopportare continue ed estenuanti proibizioni quello che rende le giornate pesanti e logoranti. In carcere, in barba ai principi che stabiliscono che la responsabilità è individuale, che vige la presunzione di innocenza, quando uno sbaglia, a pagare sono in realtà molti, dai compagni di cella, all’intera sezione, a tutta la popolazione dell’istituto. Colpiscine cento per non rieducarne nemmeno uno insomma: un imbecille “sniffa” in gas delle bombolette? In tutto il carcere vengono sequestrate quelle di scorta e ci si ritrova senza fuoco a metà cottura della pasta. Qualcuno cerca di introdurre uno spinello? Le ore di visita dei parenti diminuiscono e tutti i reclusi si vedono restringere in modo drastico i già scarsi generi che si possono ricevere con i pacchi. Contrariamente a quello che si pensa, quando ci si sofferma ai soli numeri del carnaio, il carcere è in sé una struttura rieducativa e per fortuna sono varie le attività di “recupero” che i detenuti possono seguire: studio, laboratorio di ceramica, palestra, cucina, falegnameria, giornalismo ecc.. Il difficile è semmai impostare un “programma” di studio o di attività culturale con i detenuti, ossia con persone perlopiù disinteressate alla scuola negli anni della gioventù, che poi hanno continuato a rifiutare la disciplina e l’ordine civile, al punto di finire in carcere. Ci sono diversi fattori che entrano in gioco alcuni dei quali superabili con un po’ di forza di volontà, altri di forza maggiore, in quanto dipendenti dalle stesse norme che regolano la vita carceraria. Molto spesso partecipare le attività di reinserimento significa rinunciare ad una partita a carte o di ping pong, lavare la biancheria o leggere la corrispondenza, cucinare qualche piatto di proprio gradimento, o guardare in Tv il programma preferito. Rinunciare a quell’ora d’aria “mentale” e fisica (visto che stiamo parlando consiste di una passeggiata in una cella un po’ più grande ma senza soffitto. Un “prezzo” un pò troppo salato da chiedere a un detenuto in nome della “rieducazione”. Decidere se intagliare un souvenir e partecipare a una lezione di scuola o guardare il cielo, seppur ristretto da pareti, non è proprio una scelta facile per chi sta dentro. Senza contare che scontata “la pena” nella pena (quella del giudizio), una volta fuori avere la fedina sporca di certo non aiuta: non c’è colloquio di lavoro, non c’’è concorso pubblico, non c’è fama da Grande Fratello che tenga. C’è da diventare matti perché è allora che il vero “isolamento” inizia. Se le autolesioni e i suicidi in carcere sono aumentati di molto, è perché il vero shock non si ha nell’ingresso in carcere, quanto nella quotidianità che si scopre una volta messe alle spalle quelle mura che prima soffocavano.
Daniele Memola
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